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4 febbraio 2010 4 04 /02 /febbraio /2010 20:54
La massificazione ci vizia sotto molti aspetti.
Prendete il cinema, ad esempio: ci hanno abituato a pensare che il cinema sia sinonimo di multisala. Drogati dall’idea che possano esistere solo sale enormi odorose di popcorn burroso e bibite gassate, con impianti futuribili e poggia bibita alla nostra destra siamo portati a credere che non esista altro. E prendendo i nostri nachos con lòa salsa piccante nella destra e il biglietto nell’altra mano ci incamminiamo verso la prossima scelta obbligata.

Però non sempre va così.
Lo scorso inverno, grazie al passaparola su Internet ed a un po' di curiosità, mi imbattei in Giorgio Diritti, regista con una marcia in più e molte cose da dire.
La sua opera prima, di cui mi spiace ammetterlo ho fruito illegalmente, mi colpì molto tanto da entrare di buon grado tra i miei cinque film preferiti di sempre (Nick Hornby dixit).
Ora, all’uscita de “L’uomo che verrà”  non ho potuto far a meno di sentire il suo richiamo.
Ma, ahimè, i bei multisala vicino a casa non lo proiettano! Sono tutti troppo presi da Avatar e dall’ultimo Muccino per dedicare una piccola saletta alla storia della piccola Martina, bambina coraggiosa di una Italia che fu. L’unico cinema che si sia preoccupato di dare voce alla sua storia è lo Zenith, storico cinema “diverso” di Perugia, l’unico che a suo tempo proiettò il vincitore dell’Oscar “Le vite degli altri”.
Lo Zenith è un cinema all’antica: una sala sola, l’intervallo, le poltroncine che si tiran giù. La sala non è inclinata, l’impianto è quel che è,e di sicuro niente 3D. Non è comodo per me da raggiungere, sta in centro dove non vado mai se non d’estate. Non c’è parcheggio, non c’è possibilità di prenotare il posto e la regola è chi tardi arriva male alloggia. Fa pure freddo in sala, ed abbiamo visto il film con il piumino stretto sulle gambe.
Ma la magia del cinema vive tutta lì.

E così ieri sera mi son vista il film che non mi volevano far vedere, distribuito a macchia di leopardo anche se vincitore del premi del pubblico al Festival di Roma.
Così ho scoperto Martina, bambina del 1943, figlia di contadini a mezzadria rimasta muta dopo che il suo fratellino di pochi giorni le è morto tra le braccia.
Ed il mondo di Martina è quello che mia nonna mi raccontava da piccola nei pomeriggi accanto alla stufa: il lavoro duro, il padrone che vuole ancora, l’umiltà e la fatica, il coraggio e l’orgoglio.  Un mondo sconosciuto, ma che vive ancora dentro di me.
E la guerra, i tedeschi, i partigiani, la giustizia che non si sa dove sia e chi la debba portare.
Il sangue, la strage, i bambini.
Il tutto sotto lo sguardo muto e innocente di Martina, che aspetta incurante di tutto il nuovo fratellino: l’uomo che verrà.
Diritti ci racconta ancora una volta una storia attraverso il suo linguaggio e non solo con i mezzi “classici”. Il dialetto diventa la chiave d’accesso agli ultimi della società, trattati come bestie, infelici di un’ignoranza che non vogliono.
Un film da vedere e far vedere. Per ricordare che la libertà che diamo per scontata non ci è stata donata. Per ricordare le vittime innocenti di tutte le guerre, vittime che non hanno chiesto nulla e che, spesso, nulla sapevano.

Grazie Giorgio

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1 febbraio 2010 1 01 /02 /febbraio /2010 20:54
La lega e i destrorsi di ogni estrazione sociale (ma anche molti sinistroidi) se ne devono fare una ragione: l’Italia non è più un paese 100% pizza-pommmodoro-e-mandolino anzi con enorme probabilità non lo è stato mai. Ci incamminiamo verso una società multietnica, che piaccia o meno al simpatico Ministro Maroni ed a tutto il suo cucuzzaro. Avviene in tutto il mondo, è sempre avvenuto e sempre avverrà nonostante la bava alla bocca dei puristi cattolici/intransigenti/fascisti.

Detto ciò, alcune considerazioni sparse su argomenti di attualità.

PACS E GAY.
Nessuno parla più dei fu PACS, nemmeno quel che resta del PD, intento invece a leccare le scarpe ai centristi detentori dei voti dei cattolici. All’epoca la “scusa” fu quella di impedire fermamente i matrimoni tra appartenenti allo stesso sesso, tarpando invece i diritti anche del 90% degli interessati. Ora, a parte che non vedo nessun impedimento logico al matrimonio tra due uomini o due donne, ma tutti gli altri?
Possibile che non interessi più nessuno? Cosa è rimasto di un dibattito che infiammava gli animi? Possibile che tutto passi sotto silenzio in una Italia in cui Maria Stella Gelmini, portabandiera della cristianità ortodossa, si sposa in Comune con un uomo divorziato con prole senza che l’informazione la prenda a pernacchie?
Può in Italia essere necessario un periodo di tre anni tra l’udienza di separazione ed il divorzio? Nemmeno in Polonia si arriva a tanto.

BURQUA SI/BURQUA NO.
Io dico burqua no, ma tutta la vita proprio.
E non perché mi piace dar ragione agli estremisti, né perché credo che offenda i valori culturali europei. Una donna si può mettere addosso ciò che vuole, dagli hot paints al vestito da suora (così diverso dal burqua?) purché lo decida lei liberamente. Solo che se vai su un autobus o cammini per strada io autorità pubblica devo poterti vedere in faccia. Io lo vieterei, ma per motivi di ordine pubblico semplicemente, perché deve esser possibile l’identificazione dei cittadini. Metti che una ti borseggia e c’ha il burqua: già le forze dell’ordine non gliela fanno a far giustizia se gli fai un identikit accurato e gli dai anche l’indirizzo con tanto di numero civico, figuriamoci se è una montagna di stoffa nera a fregarti il portafoglio.
Sì invece allo chador, così identico al fazzoletto che le nostre nonne portavano (la mia nonna paterna tuttora) e senza il quale non uscivano di casa manco a bastonate, pena l’esser scambiate per donnacce da farmi tenerezza. Erano gli anni ’40, sig. Maroni, mica 1000 anni fa. Si informi.
Ma le ragazzine che incontro al supermercato  vestite con minigonna e stivale più colorato chador, tutte prese dal chiacchiericcio sui maschi, mi fanno ben sperare per il futuro: forse questo mondo si può cambiare.

CROCEFISSO.

Non ne voglio parlare più, che poi mi infervoro e prendo fuoco come un cerino. Tanto la mia opinione è risaputa e nota, non ho altro da aggiungere. Anzi sì, solo che vista la proposta di legge fatta dal PD sull’argomento avrei voglia di prendermi a martellate sulla french almeno venti minuti di fila per le volte che li ho votati.
Ma Dio mi fulmini se accade ancora.

IMMIGRATI A CASA LORO.

I fatti di Rosarno sono stati indicativi. Immigrati con regolare permesso di soggiorno (i clandestinio si contavano sulle dita di una mano, si sappia) si ribellano allo sfruttamento delle mafie italiche e che succede? Sono loro i delinquenti, sono loro quelli che vengono a rubare il lavoro in Italia! Quelli neri, e quindi sporchi e cattivi.
Berlusconi che fa? Soffia sul fuoco dell’intolleranza, bistrattando gli immigrati insorti, cacciandoli, facendo il gioco dei padroni. Un gioco elettorale? O affari di famiglia?
Senza fare retorica buonista, mi domando solo: se non ci fossero gli immigrati chi farebbe certi lavori oggi? Chi raccoglierebbe l’italica frutta e la verdura tricolore? Chi baderebbe ai nostri anziani invalidi? Chi pulirebbe i nostri uffici? Riflettete gente, riflettete.

Per concludere siamo un paese bigotto e ancorato al passato, un passato che ricordiamo caldo e rassicurante mentre, diciamocelo, cambiare fa paura.
Siamo cattolici che non vanno in Chiesa e che hanno perso per strada i valori della cristianità a favore di nenie e formule svuotate di significato. Amen, alleluia, tre Paternostri e tutti a casa.
I nostri politici di entrambi gli schieramenti, e sottolineo TUTTI, hanno perso la misura di quanto siano importanti i cambiamenti sociali in un mondo che cambia così velocemente ed in cui, volenti o nolenti, non esistono più barriere.
Intanto io, guardandomi la french, posso solo pensare che quest’Italia non mi appartiene.

Per niente...

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30 gennaio 2010 6 30 /01 /gennaio /2010 16:20
Mio zio non era un cuor di leone.
Anzi, non era nemmeno coraggioso, neanche da giovane.
Solo che ci si trovò in mezzo, era l’unico maschio abile della famiglia e fu arruolato.
Mi dicono che fosse simpatico mio zio, allegro e dalla battuta pronta. Uno di quelli che sorrideva lisciandosi i baffetti e facendo ridere gli occhi cerulei e le ragazzotte arrossivano, cincischiando tra di loro a gruppetti e tirandosi in faccia il lembo del fazzoletto.
Alla messa della domenica tutte le ragazze del paese se l’occhieggiavano, ma lui aveva occhi solo per mia zia che lo guardava a vista incattivita.
Alto, dinoccolato e con la zazzera castana, partì per la guerra con l’incoscienza della gioventù e la speranza di metter qualcosa da parte per costruire con mia zia la casetta dei loro sogni lontana dalla povertà della mezzadria.
Ma fece i conti senza l’oste, partendo nel 1943 verso il Nord e finendo dritto nelle mani crucche dei soldati tedeschi che fino al giorno prima erano alleati
Così mio zio di guerra non fece un sol giorno e servì lo la Patria per poche settimane senza sparare un solo bossolo dal fucile.
Sparì e per quattro lunghi anni la sua famiglia lo pianse.
Mia zia portò il lutto, divenne vedova, continuò a piangerlo.
Finché una mattina di maggio, quando la guerra era finita da un pezzo, sentì bussare alla porta e si trovò davanti un vecchio cencioso appoggiato ad un bastone da eremita, magro come un palo della luce e con una barba che toccava quasi il petto. “Sono io, Delfa” le disse “son tornato.” E mia zia, ovviamente, da vedova sconsolata qual’era fece l’unica cosa che le venne in mente: svenne.
Secca. E solo l’aceto forte di mia nonna strofinato sotto il naso la fece rinvenire.
Mio zio non parlò più di quegli anni. Rimase muto, in un angolo.
Una sorta mistero ceruleo, chiuso nei suoi ricordi.
Divenne un uomo chiuso e provato, vegetale appoggiato al suo bastone.
Lui era vivo, ma la sua allegria ed il suo buon carattere erano rimasti in terra tedesca, confinati in chissà quale segreto.


Passarono gli anni e arrivo io, ragazzina di scuola elementare con le trecce.
Correva l’anno 1985 e la maestra commissionò a tutta la classe una ricerca di quelle serie, che porterà alla compilazione di un agognato cartellone:  “Testimonianze e racconti della Seconda Guerra Mondiale”. Ragion per cui decisi di stressare parenti/vicini/conoscenti ed affini fino alla nausea con domande a raffica. Mia nonna, al limite della sopportazione dopo aver cacciato e riesumato dalla memoria ogni singolo dettaglio insignificante dell’epoca, mi suggerì melliflua: “Vai da tuo zio e fatti dire. Se ci riesci…

Così, armata di penna, quaderno e occhioni da Bambi, bussai  a casa degli zii.
Mi aprì la zia, intenta già a spignattare non so che cosa alle quattro del pomeriggio. Con la faccia burbera e accigliata di chi sa di essere il depositario unico della disciplina e della morale, mi schiaffò su una seggiola senza tante moine, con un bicchiere di succo di frutta alla pesca non richiesto davanti.
Mio zio se ne stava seduto accanto alla stufa, attento a studiare il pomo del suo bastone come se fosse la cosa più interessante del pianeta.
Zio mi racconti della guerra?” gli dissi. E lui fece scattare la testa verso di me, i suoi occhi puntati addosso. “E’ per scuola…” aggiunsi timidamente.
Per un po’ non disse nulla. Se ne rimase lì, accanto alla stufa a fissare un punto mentre io non staccavo gli occhi dal succo di frutta. Che poi a me il succo alla pesca m’ha sempre fatto schifo. Fosse stato alla pera, almeno. O, che ne so, all’ananas. Ma proprio alla pera, accidenti.
Non mi ricordo dov’eravamo accampati, non sono mai stato bravo con i nomi. In fondo sono solo un contadino, mica ho studiato.” La sua voce, che avevo sentito così poco in quegli anni e solo in monosillabi, squarciò l’aria. Presi la penna senza dire nulla e attaccai a prendere appunti.  Mia zia impegnata tra le pentole alle mie spalle sembrò non accorgersi di nulla.  Poi la voce riprese, lenta e strascicata: “Dormivamo accampati e ci furono addosso in un attimo. Anche perché i tedeschi erano alleati, mica nemici. E chi se l’aspettava? Spararono a tutti quelli che provarono a ribellarsi, a tutti. Poi a noi ci caricarono sui furgoni urlandoci dietro con quelle vociacce e ci fecero scendere solo dopo tre giorni. Manco per fare i bisogni ci hanno fatto scendere, te lo immagini ragazzina?
Deglutii, prendendo appunti con più veemenza.  “E dove eravate?
Non lo so dove, ma tutti ci urlavano in tedesco. Ci chiusero in baracche, trenta per ciascuna. Eravamo in un recinto, come le galline, guardati a vista dai soldati. Il primo giorno piangevamo tutti, il secondo io le lacrime le avevo finite. Ce ne stavamo lì tutto il giorno a pascolare, per cibo solo una scodella di minestra e un pezzetto di pane. Per lavoro ci facevano sbucciare tonnellate di patate. Patate, patate e ancora patate. A mucchi. Ma mica ce le potevamo mangiare sai? Le bucce sì, erano tutte nostre, ma le patate no. Se ti beccavano a rubare di sparavano mettendoti contro il muro, l’ho visto fare. E se facevi la buccia troppo spessa ti beccavi una botta col fucile in faccia. E come ridevano, ‘sti crucchi schifosi!! Morivano dal ridere!
Un accesso di tosse lo interruppe violento. Io non osai fiatare.
Nella mia mente di bambina pregustavo già lo scoop scolastico.
Mia zia, che credevo non stesse ascoltando, gli allungò meccanica un bicchier d’acqua e svanì di nuovo prima che potessi guardare l’espressione del suo viso rugoso.
Noi stavamo male, eh, ma c’era chi stava peggio. Oltre la rete c’erano altri prigionieri così magri che sembravan scheletri. Non parlavano italiano, non sapevo chi erano, poi ho scoperto che erano ebrei. Non gli davano manco la minestra, ma una cosa che sembrava la sciacquatura dei piatti. A volte gli ho visto mangiare la terra. Porelli, noi c’avevamo fame e freddo, ma loro erano ridotti a bestie! Chissà da quanto che erano lì. Io avevo paura di diventare come loro e di nascosto da sotto la rete gli passavo le bucce delle patate quando le guardie non guardavano. Quanti ne ho visti morire e restar lì a fare il concime! E che puzza!"
L’orrore e la nausea mi invasero a fiotti.
A nove anni forse non ero pronta, o magari non lo si è mai.
Ricacciai la nausea in gola e ripresi a scrivere meccanica mentre lui, ormai fiume in piena continuava: “Il tempo non aveva importanza, non so quanto rimanemmo lì. So che un giorno le guardie sparirono e ci lasciarono senz’acqua per una settimana. Forse avremmo potuto anche provare a scappare ma eravamo troppo deboli. Dall’altro lato della rete morivano sempre più ebrei, la puzza non si sopportava più. Poi arrivarono gli americani. Ci diedero acqua e cioccolata, e vestiti. Anche le scarpe. La cioccolata mi fece venire subito la cacarella e anche agli altri. Patate e  cioccolata mica io li mangio più. Poi a noi che stavamo bene dissero che potevamo tornare a casa, ché la guerra era finita. Ma dov’era casa mia mica lo sapevo.”
E tu...  che cos’ha fatto allora?
Eh, che dovevo fare? Partimmo un gruppetto verso l’Italia. Ma a piedi però che non avevamo soldi. Qualcuno a volte ci dava un passaggio col carretto, a volte un pezzo di pane. Ma dovevamo star attenti ché se ci scambiavano per fascisti c’ammazzavano come polii!! E così c’ho messo quasi due  anni a tornare, e son arrivato con le scarpe tutte sfonde. Che fatica!” disse appoggiandosi allo schienale con un sospiro.
E i tuoi compagni? Che fine hanno fatto?
E chi lo sa? Qualcuno è tornato a casa, qualcuno è morto. Ma non ci siamo lasciati manco i nomi, ché certe cose è meglio scordarle.”
E così concludendo si rimise a fissare il pomo del bastone.
Fine delle trasmissioni.
Tutti a casa.
The end.

Non so perché decise di raccontare tutto a me quel giorno.
non avevo un gran rapporto con mio zio, né l’avrei avuto negli anni a  venire.
Forse sentì  che era arrivato il momento, forse voleva lasciare una traccia, non lo so.
Di certo una traccia la lasciò in me quel giorno, partita così tronfia come giornalista d’assalto e finita a sognare di pelar patate la notte.
La mia ricerca fu la più apprezzata e completa, senza contare l’invidia dei miei compagni perché avevo un parente che era stato in un campo di concentramento mentre magari loro erano nipoti di imboscati. Ma io non mi sentivo così fiera, anzi questa gloria aveva un sapore amaro quasi come le bucce di patata.

E non ho mai dimenticato…

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20 gennaio 2010 3 20 /01 /gennaio /2010 11:44

Viviamo tempi strani.
E non solo perché in TV impazzano programmi spazzatura e persone a cui non affideremmo il nostro gatto ci governano.
E’ che proprio essere di sinistra è diventato difficile.

Non basta lo strapotere dei media, il reflusso nel personale, la caduta verticale dei valori, il qualunquismo imperante.
Il sinistroide è oramai una razza in via d’estinzione. Una entità paranormale che si sente quasi vicina ad un politico equilibrato come Fini.

Ed è tutto dire.
Ed è orribile ritrovarsi a simpatizzare con velenosi articoli de Il Giornale.
Disilluso, mortificato, bastonato e stanco, il comunista è come il Dodo?
E la sinistra, questa entità sconosciuta, dov’è?
Il PD? Il Partito Democratico? Cos’è? Dov'è?

Viviamo in tempi in cui una sinistra allo sbando completo non trova di meglio che candidare alla Presidenza della Regione Lazio una “celebrità” come Emma Bonino. Niente di personale sia chiaro, contro una donna in cui potrei anche ritrovarmi, ma che non appartiene comunque al 100% alla sinistra che dico io e che soprattutto è classe 1948.
Possibile fosse l’unica via?
Una Sinistra che non c’è, appunto, eppure manovrata da oscuri burocrati che hanno immolato sull’altare della lotta al Cavaliere i vari Franceschini, Soru e Fassino. Per non parlare della fine triste di Uòlter. Non si è più ripreso, poveraccio, vaga ancora per il mondo balbettando “Si può fare!!!” e cercando di incontrare Obama.

Su Bersani non mi esprimo. E’ meglio.

E poi c’è lui, Nicola Vendola detto Nichi.
Politico di mestiere, innovatore, una luce in fondo al tunnel.
Amatissimo nella sua Puglia, unico politico giovane (e non parlo di età) di cui la Sinistra dispone attualmente.
L’unico uomo che potrei votare.
Ma alla Sinistra stessa non piace, è troppo innovativo.
Sovverte gli schemi, non ama il partito, è diverso.
Sì, è gay, ok. Ma è una cosa che dovrebbe riguardare noi?


Ma non lo vedi, c’ha l’orecchino!! Chi può prenderlo sul serio?” sentenzia mio padre, comunista nel DNA.
 “No, fammi capire. Uno può andare a puttane di lusso e governarci, ma un gay no?
Lui fa spallucce, e bofonchia qualcosa sulla serietà che devono esprimere le persone.
E questo devono aver pensato gli esimi esponenti burocrati del PD, persi nei loro onanistici giochi di potere.
Troppo presi dai particolarismi, figli deformi delle differenze della Sinistra che ben altri frutti potrebbero dare.
Troppo presi a spartirsi una torta che qualcun altro si sta mangiando, si comportano come ragazzini a cui il vicino cattivo  ha bucato il pallone con cui stavano giocando e che per sbaglio hanno buttato nel giardino di Arcore.

Evolversi sembra diventata una brutta parola.
Aprirsi al cambiamento sia sociale che economico una bestemmia.
E allora spaliamo fango, per non parlare di altro materiale maleodorante, su Vendola, fondatore nel frattempo di Sinistra e Libertà.
Come se la Sinistra avesse avuto bisogno di altri scismi.
Unificare la Sinistra? Creare un partito VERO?
Macchè.
Meglio candidare la Bonino,
Meglio elemosinare i voti di Casini.
Meglio far vincere ancora Berlusconi.


Scusatemi, devo andare in bagno…

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19 gennaio 2010 2 19 /01 /gennaio /2010 20:50
Tutti i bambini aspettano le feste di Natale. Non si va a scuola, si ricevono regali, si passa il tempo in famiglia si mangia un sacco di cioccolata.
Chi non amerebbe un periodo dell’anno così?
Ed infatti da bambina le amavo anch’io, ma un po’ meno da adolescente visto che comportavano l’affrontare due temutissime ricorrenze: Capodanno ed il mio compleanno.
Per capire la portata del mio adolescenziale problema, facciamo un passo indietro.
Tra i 13 ed i 16 anni sono stata una ragazzina abbastanza solitaria, e ancora più refrattaria alla vita sociale di un riccio timido.
Non avevo una compagnia di amici, non avevo filarini, mi piaceva leggere e non ero interessata ad i miei coetanei.
Poteva questo star bene alla mia effervescente madre?
No, no e poi no.

Cominciava dal giovedì a chiedermi se nel fine settimana sarei uscita un pomeriggio con qualche amichetta, se magari avevo intenzione di andare al cinema o a qualche festicciola.
Io, nerd per vocazione ma col poco coraggio tipico di quell’età, rispondevo a monosillabi non sapendo esternare né il mio disagio né la voglia di essere lasciata in pace.
Così, complice l’assenza dei cellulari, mi costringevo a telefonate alle amichette proprio quando sapevo di non trovarle, improvvisavo mal di testa, dolori mestruali e via discorrendo.
Tutto questo con somma frustrazione di mia madre (e sogghigni di mio padre) che non riusciva a capire una ragazzina così diversa dalla norma di paese.
Già.
In realtà poco mi trovavo in quella dimensione, volevo cose diverse, avevo sogni ed aspirazioni che non erano capiti.
In più i miei, nonostante le mie recriminazioni, mi avevano sbattuto in una scuola superiore che niente invidiava ad un riformatorio, tra gente con cui potevo al massimo parlare di calcio, visto che il GF non esisteva ancora.
Insomma, non avevo amici se non qualche sporadico lascito della scuola elementare e a mia madre questo non stava bene. Voleva di più, mi voleva vedere felice e per lei questo voleva dire introdotta, regina delle feste, ammirata dai maschi.
Peccato che fossi occhialuta, informe e con l’apparecchio ai denti.
Ingombrante.
E se già tutto questo non vi risulta abbastanza pesante, immaginate come poteva diventare forte la pressione in occasione dell’evento dell’anno: Capodanno.

Allora, questo Capodanno?” mi chiedeva. E io avrei voluto rispondere: “Dormo??” e invece chinavo il capo e mi sforzavo di rendermi simpatica, di andare alla solita festa in cui avrei fatto tappezzeria al pari dei divani, in cui avrei visto gente felice con cui non riuscivo ad integrarmi pregando che finisse il più presto possibile.

Poi c’era il mio compleanno, giorno per il quale dovevo assolutamente organizzare una festa.
OBBLIGATORIO.
Un incubo.
Vivevo col terrore che non sarebbe venuto nessuno, e quei pochi martiri si sarebbero annoiati a non finire, mentre mia mamma passeggiava allegra con vassoi di tartine e sorrisi ebeti.
Ansia, ansia, ansia.

Tutto negativo allora?
No, con il cambio di scuola prima e l’Università poi le cose sono cambiate molto. Sono diventata anche peggio di quello che mia madre potesse augurarsi nei suoi sogni più rosei, con orari da scimmia ubriaca, flirt e assenza di storie serie (che divennero la sua nuova preoccupazione), cento amici e mille conoscenze da barcamenare, un’agenda fitta di impegni e lavoretti. La mia stessa vita sociale e ra un lavoro.
E mai che lei potesse mai dirmi: “Ma esci anche stasera?” o “A che ora torni?” pena la fulminazione immediata.

Ma è giusto stressare i figli in questo modo?
Non si può semplicemente lasciare che “siano” senza volerli far diventare una proiezione di sé?
So che mia madre l’ha fatto per troppo amore, ma è giusto impicciarsi così tanto?

Ed è per questo che tutt'ora il giorno del mio com'pleano mi risulta indigesto?

E son già trentaquattro...

 

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4 gennaio 2010 1 04 /01 /gennaio /2010 20:16
L’avevo giurato.
Promesso. Giurato ancora.
Invece, nonostante le passate e tragiche esperienze, l’ho fatto ancora.
Ho fatto un ordine su BOL.
Maledetti.
Sono così invitanti, melliflui, colorati, all’apparenza convenienti.
Offrono sconti del 30%, 3x2 graziosi e golosi, spese di spedizione con corriere espresso gratis.
Come resistere?
E così l’ho fatto.

Non solo, ho anche coinvolto una mia amica che cercava un regalo di Natale dicendole (con i soliti due metri e spicci di spocchia che ho quando si tratta di libri e affini): “Tranquilla, è a consegna garantita!! Massimo entro il 22 dicembre!

In fondo era il 15 dicembre, un corriere consegna in 2 giorni, massimo 3. Eravamo larghi.
Enormemente tranquilli.

Poi nevica.

Tre fiocchi in croce o poco più.
Dieci centimetri di neve al nord e l’Italia va in tilt completo.
ED IL PACCO NON SI PRESENTA ALL’APPELLO.

E dire che per evitare qualsiasi disguido, avevo messo come luogo di consegna l’ufficio, situato in zona industriale e di facile raggiungimento.
Così mi ritrovo il giorno dell’antivigilia a litigare con il loro numero verde, che tanto verde non è visto che è anche a pagamento oltretutto!! (E’ il 199 10 13 13 se ne aveste mai bisogno).
Phoebe: “Mi scusi, non ho ancora ricevuto un ordine che dal vostro sito risulta spedito
Operatrice: “Mi può dare il numero dell’ordine?
Phoebe: “Certo, è XXXXXXX
Operatrice: “Guardi, il corriere non l’ha ancora preso in carico. E’ ancora qui presso di noi. Deve capire, la neve…
Phoebe: “?????”
Operatrice: “Sì, siamo stati bloccati dalla neve
Phoebe: “Guardi, non mi prenda in giro. Capisco il ritardo di un giorno, ma…
Operatrice: “Mi dispiace, prima del 28 dicembre il pacco non verrà consegnato!
Phoebe: “Ma c’erano regali di Natale!!
Operatrice: “Mi spiace, se la prenda con la SDA!
E saluti al secchio.
GRRRRRRRRRR!

Sono furibonda, prima di tutto con me stessa: non avevo giurato di non caderci più???
Inoltre mi torna in mente che tra Natale e Capodanno sarà in ferie quindi corro a pregare in turco arcaico la centralinista (unica abitante della palazzina in quei giorni) di ritirarmi il pacco.
Ricevute le debite assicurazioni,  lascio passare il tempo.

Stamane, 4 gennaio, rientro in ufficio certa di trovare il pacco.

NULLA.

Sento la centralinista e lei mi dice che della SDA nemmeno la puzza.
Chiamo inviperita il servizio clienti BOL (ancora a pagamento):
Phoebe: “Mi scusi, non ho ancora ricevuto un ordine che dal vostro sito risulta spedito. E’ del 15 dicembre, capisce la mia alterazione??
Operatrice: “Mi può dare il numero dell’ordine?
Phoebe: “Certo, è XXXXXXX
Operatrice: “Guardi, il corriere ha tentato due volte la consegna, il 30 e il 31, ma non ha trovato nessuno
Phoebe: “Senta, mi scusi la franchezza, ma non diciamo cazzate.”
Operatrice: “Così mi dice il corriere
Phoebe: “Guardi, non mi prenda in giro. Capisco La consegna era da effettuare presso un corriere per il quale io lavoro, secondo lei non era aperto?
Operatrice: “Mi dispiace, sono mortificata ma non so che dirle… Provi a contattare il corriere SDA.”
Phoebe: “Senta, quelli sono peggio di un ministero. Consideri poi il fatto che sono a 1 km dal luogo di consegna. Quanto mi dovrei incazzare?
Operatrice: “Mi spiace, se la prenda con la SDA!
Doppiamente maledetti.
GRRRRRRRRRRRRRRRRRRRR!

Ora, il pacco al momento non è ancora arrivato.
Non posso andare a ritirarlo perché alla SDA non risponde nessuno: in filiale c’è un disco che rimanda al numero verde (a pagamento) ed  il numero verde ti lascia in attesa 40 minuti, poi cade la linea, quindi non c’è nessuno con cui possa concordare il ritiro fermo deposito.
Cosa dovrei fare?
Andare a sbraitare in filiale?
Rigare con un cacciavite tutti i camioncini SDA?
Inviare un virus al sito di BOL?

Li odio…


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3 gennaio 2010 7 03 /01 /gennaio /2010 14:47
E venne il giorno della visita dall’allergologo.

Mi reco sempre nel bellissimo e nuovissimo Ospedale di Perugia, ma
oramai la strada la so e non mi fregano più.
Come Pollicino ho lasciato la mia scia di briciole di pane e sono abbastanza sicura di non perdermi in quel dedalo.

Arrivo puntuale e scopro subito che c’è un milione di persone in fila con me. E per fortuna che questo non è periodo di allergie. Incontro un padre con la figlia pure lei allergica alla polvere, tutta contenta della fila: oggi si zompa l’interrogazione di storia, olè!
 
Una gentile dottoressa mi fa accomodare in ambulatorio e, mie analisi alla mano, mi informa che:
-  Ho una grave allergia agli acari.
- Il vaccino desensibilizzante, che potrebbe essere risolutivo nel mio caso, costa € 400,00 l’anno NON MUTUABILE (perché poi non è dato sapere). Mi informa che loro non praticano il vaccino sublinguale perché poco efficace checché ne dica internet e che quindi parliamo di quello classico. Per tre mesi l’anno una volta a settimana mi dovrei recare da loro e starmene due ore ad attendere eventuali reazioni all’iniezione. Ah, sempre a pagamento, chiaro.
-  Il rispetto delle condizioni igieniche per me è il 90% della lotta all’allergia. Inutile tentare di spiegare ai dottori che a parte in casa mia, sul resto del mondo io non ho controllo. Al lavoro ad esempio, ho i termoconvettori che fanno danzare gli acari nell’aere come farfalline e delle tende che sono state pulite l’ultima volta nel 1985. Che faccio, litigo?
-  Mi faranno una spirometria per vedere se sono anche asmatica. Sarebbe il massimo, sai che culo? Asmatica e allergica.

Mi mandano da un tecnico gentile come la carta vetrata e già rubizzo alle dieci di mattina.
Infermiere: “Salga sulla bilancia
Phoebe: “Eh?????
Infermiere: “Su, salga” e mi ci schiaffa su con scarpe e piumino incluso prima che gli possa illustrare che pesarsi è assolutamente contro la mia religione. “Dunque, 1 e 64 per 60 kg…
Phoebe: “Eh????
Infermiere mentre scrive i moduli al computer: “Dunque, 1 e 60 per 64 kg…
Phoebe: “No, guardi…
Infermiere: “Si sieda e soffi.
Phoebe: “ Sì, solo che io…
Infermiere: “Si sieda e soffi. FORTE:
Mi arrendo e soffio.
FORTE.
 

Per fortuna non sono asmatica, ma solo allergica.
E, forse, cicciona, ma questa è un’altra storia.
Mi regalano una terapia farmacologica in attesa delle mie decisioni sul vaccino e mi congedano.
Uscendo dal parcheggio, mi sono rimaste appese alcune inquietanti domande che difficilmente troveranno risposta a breve.
Può un’allergia comparire dal nulla a 33 anni?
Perché  un vaccino per una allergia considerata grave all’unanimità deve essere a pagamento?
Non stiamo parlando di un superfluo medicinale per le rughe, ma di un vaccino per un fastidio vero!
A che serve allora il SSN allora?
Peso davvero 60 kg seppur vestita e calzata????
 
Forse mangio troppi acari…
 

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23 dicembre 2009 3 23 /12 /dicembre /2009 22:26
Quando si è single, specie se si è donne, la fissazione nonché problema primario è quella di rimanere sole tutta la vita, di non trovare mai l’anima gemella, di morire sole ed abbandonate mentre il nostro persiano ci rosicchia le unghie dei piedi in preda ai morsi della fame.
In buona sostanza, la paura è quella di essere etichettate con la dicitura zitella in fondo all’archivio della società e lì abbandonate e dimenticate per sempre tra gatti di polvere e vecchi merletti.
Tralasciando l’aspetto maschilista della parola zitella (che non fa assolutamente il paio con il frivolissimo corrispettivo maschile, cioè scapolo) e l’imprinting all’accoppiamento ed a una certa sudditanza psicologica che viene dato alle donne di qualsiasi età, istruzione e ceto, voglio focalizzare la vostra attenzione su un altro dimenticato, ma non meno importante, aspetto.
Cosa succede quando voi, single per anni, abituate a stare benissimo con voi stesse e a fare i conti solo ed esclusivamente col vostro ego, l’anima gemella tanto bramata la trovate?
Perché, diciamocelo, se Carrie capitola davanti ad un appesantito e leggermente rubizzo Mr. Big, allora vuol dire che capita proprio a tutte.
PRIMA O POI.
No, non scuotete la testa.
Come ha detto un mio simpatico amico “Se è successo a te, può succedere a tutte”.

Grazioso, non trovate?

Te ne stai lì, con le difese abbassate perché ormai certa che il tuo lui ideale non sia nato, sia morto da piccolo di una orribile malattia o viva in Papua Nuova Guinea tra gli aborigeni in perizoma. Te ne stai lì, dicevo, bella tranquilla e rilassata a gongolarti nel tuo cinismo acquisito in anni di duri allenamenti tra frequentanti e deficienti assortiti  che ti hanno determinatamente convinta che gli uomini sono tutti stronzi e che nessuno ti amerà mai, quando lo vedi. E, peggio, lui vede te.
E vi riconoscete.
PUFF!
E’ lui. E’ lei.
In un battito di ciglia o poco più il mondo come lo avevi conosciuto fino a quel momento si ribalta, costringendoti a sinistri voli pindarici fatti di romantici momenti in comune, luminosi tete-à-tete e simpatici cuoricini, coniglietti, brillantini rosa e compagnia cantante. E prima che tu, ex single impenitente e concentratissima solo ed esclusivamente su te stessa e le tue scarpe (nel mio caso sui miei libri), possa rinvenire dallo stordimento ipnotico dei cuoricini rosa e dall’ottenebrazione del sesso… PUFF!
Ecco qui, sei accoppiata.

Convivi.
 
Dividi la tua vita con una persona che non sei tu.
Ed è, in pratica, il primo giorno del resto della tua vita perché non ne sai nulla.
Non hai mai imparato la nobile arte del compromesso e della diplomazia.
Non sai dividere gli spazi ed il tempo.
Non sai gestire una casa tutta tua, visto che hai degli orari da scimmia ubriaca.
E soprattutto, non sai stirare. Nemmeno con il tuo fantascientifico ferro da stiro nuovo: fashion, a risparmio energetico e facile da usare. Per gli altri.
DRAMMA.
E come diceva sempre mia nonna, vivere con una persona non è come fidanzarsi. Non sai chi è il tuo compagno finché non semina i calzini sporchi nella lunga via che dalla camera porta al bagno come fossero bulbi di tulipano. Chissà, mi chiedo, se succede anche a Carrie e che cosa ne pensa. E se, soprattutto, fioriscono a primavera.
In fondo nelle favole Cenerentola o Biancaneve sposano il Principe e parte la musica dell’happy end, la parte del bucato e del rassettaggio del castello la saltano sempre a più pari.
Ma il trauma di dividere la propria vita non ha nulla a che vedere con calzini da raccogliere, bagni allagati o mutande da lavare.
E’ mediare la propria vita per amore il passo realmente difficile.
Imparare l’arte di camminare sulle uova anche se fino al giorno prima si calzavano comode Timberland.
Passare dall’IO al NOI.
Questo non te lo insegnano all’Università, ed è un peccato perché è tutt’altro che semplice.
E’ una guerra.
Una guerra quotidiana.
 
Ma bellissima da vivere.


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14 dicembre 2009 1 14 /12 /dicembre /2009 22:18
Me ne sto al centro commerciale a leggere. Fuori il freddo è già arrivato ed il parco è impraticabile anche al tiepido sole della pausa pranzo.
Mi siedo sulla panchina davanti alla libreria.
Ha lo schienale più comodo e poi posso occhieggiare i mie futuri acquisti mentre giro le pagine.
Me ne sto lì, dicevo, sprofondata in un libro classico, ma sempre attuale quando una voce mi richiama al mondo dei vivi. “Phoebeeeee! Ma sempre a leggere???”

Ora, non so voi, ma io ODIO venire interrotta nella lettura. E’ un po’ come quando suona il cellulare in salotto e voi siete in bagno “in riunione”. Certo, leggere in un centro commerciale dove orde di perugini iniziano a fare i primi lungimiranti acquisti natalizi non è il massimo della discrezione, me ne rendo conto. Perciò respiro a fondo, alzo la testa, sfodero un sorriso e mi limito a chiedermi dentro: “Ma chi è che rompe le palle??
E mi trovo davanti lei.
LEI.
Compagna di palestra, donna perfetta del nuovo regime, ricca di famiglia, due figli, marito, all inclusive compresa la cameriera, la baby sitter straniera sottopagata ed il cane. Un labrador, ovvio.
Vestita come me ad una riunione, truccata e parruccata da urlo, mi  guarda sciallata sulla panchina dentro il mio piumino lilla.
Phoebe: “Oh, ciao! Niente palestra nemmeno tu?
Lei: “No, oggi no. Sai, clienti da portare in giro blabla, affari, blablabla, progetti blabla e ancora bla.” Il mio cervello s’è staccato.
Vedo le labbra muoversi, ma non recepisco una parola. Ah, che pace! Adoro la settorialità del mio cervello. “Ah, ma vedo che leggevi!
Mi riscuoto: “Ehm, sì. E’ il libr…”
Lei euforica: “Sìììì. Anch’io adoro leggere! Mi piace cosìììì tanto.” Io annuisco incredula con il sopracciglio sinistro alzato. Mi pare strano che ami leggere chi dà come definizione di “evento culturale” l’ultimo cinepanettone in uscita. Attendo che finisca la frase e  “Sai, ora mi compro l’ultimo di Vespa!
AHHHH! BINGO!!!! VOLEVO BEN DIRE!!!!!
Phoebe (con due metri e spicci di spocchia): “Non è che quello sia proprio un libro, eh!
Lei col nasino all’insù sentenzia: “L’importante è leggere” Anche la merda, vorrei aggiungere.
D’un tratto si illumina ed inizia a ravanare nella sua immensa borsa di Gucci: “Ora, per esempio sto leggendo… ehm… come si chiama… ah, VERONESI!
Sono colpita. Cioè, non è Dostojevski ma è comunque molto per il soggetto che ho davanti. Mi incuriosisco, mentre lei continua a scavare frenetica tra i mille anfratti della sua borsa: “Veronesi? Ah, e che cosa? Caos Calmo, immagino!
Si ferma, attonita. Tira fuori il libro e mi fa: “No, questo!
Ah. Ecco.
Adesso è chiaro.


Ora, massimo rispetto per l’uomo, ma io tutti ‘sti libri scritti da non-scrittori io non li sopporto. Li stenderei con una testata.
Che siano veline, calciatori, politici, presentatori, comici, preti, attori o Sbirulino in persona poco conta: NON SONO LIBRI.
Non li tollero, sono razzista.
Per me sono tutte cazzate predisposte ad invogliare chi non legge d’abitudine, impaginate con copertine dai dorsi sgargianti che vanno ad arredare ricchi salotti con divani in pelle umana.
Poi posso sbagliare e ricredermi su alcuni.
 
Ma anche no.
 

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11 dicembre 2009 5 11 /12 /dicembre /2009 19:13
Ultimamente ho sviluppato un’allergia ulteriore a quella già gravosa agli acari: non riesco a guardare i TG nazionali, né tantomeno i programmi stile Matrix (depennato da quando Chicco è stato defenestrato) o Porta a Porta (che Dio me ne scampi e liberi).
Non sopporto di addormentarmi con la faccia di Berlusconi che mi guarda, scusatemi ma rischio incubi che preferisco risparmiarmi.
Così però, mi taglio fuori da “scandali” e “notizie” importantissime per il nostro paese, su cui però a volte si premura di informarmi per radio la mattina
Tutto Esaurito, uno dei pochi programmi ironici ed intelligenti che ci sono rimasti.
Stamattina si parlava di Fabrizio Corona, e così vengo a sapere che lui ha osato parafrasare le mie parole.
ANATEMA!!!
Proprio lui!!!
NOOOO!!!
Mi vergogno di essere italiano ciancia alla fine del procedimento a suo carico per aver ricattato non so quanti VIP o presunti tali.
Ehi, bello, fai la fila!!!
Io questa cosa l’ho affermata
quasi un anno fa e ora voglio i diritti!!!!
 
Caro Fabry,
tu affermi giustamente che tre anni di galera per te quando in Italia gente come Tanzi se ne sta  a panza all’aria in una villa da 800 metri quadri ti disgustano. Ma il fatto che indagati, pregiudicati e personaggi con una moralità così infima che nemmeno il Napisan potrebbe nulla ci governano non ti fa né caldo né freddo?? Ti stupisce che per reati come quelli di Tanzi negli USA (paese che non venero, per carità, ma quando ci vuole ci vuole) vengano dati 96 ergastoli e a lui qui in Italy nulla?
E non ti stupisce che un dittatore ci governi indisturbato tra l’indifferenza dei media?
Coroncino mio, tu che hai un gusto
così squisito, devo esser sincera: ti facevo più smaliziato come provocatore. Agli italiani non gliene frega una emerita cippalippa dell’altro, a meno che  non gli venga a calpestare l’orto. Tu fino a ieri eri bulo (ndr. figo in perugino), eri l’italiano guascone, spaccone e furbo, arricchito sulla pelle degli altri. Da domani, o da dopodomani poco cambia, sparirai nella nebbia dei tempi. E saluti al secchio.
Se gli italiani si scandalizzassero per la tua sentenza, dovrebbero prima scandalizzarsi di cose ben più gravi.
 
Di un governo che pone la fiducia anche per decidere il menu del pranzo di Natale della Camera, ad esempio.
 
Di avere come Ministro della Giustizia uno come Angelino Alfano, la cui famiglia è nota in Sicilia per le sue collusioni mafiose e per aver difeso chiunque li pagasse. Senza parlare di Fitto, un personaggio talmente colluso con tutto da sembrare candido per paradosso.
 
Di vedere portare avanti una riforma per il cd. “processo breve”, tacciato da chiunque abbia studiato almeno fino alla seconda media di
incostituzionalità. Lo avversa Casini, lo contrasta Fini. Solo Bersani sta zitto. Un processo che prediligerebbe la rapidità al giusto processo, una specie di Mc Donald della giustizia. Un Mc Chicken, due patatine e tre assoluzioni. Burp.
 
Di vedere come portabandiera della sinistra gente vecchia (e non solo anagraficamente) come Bersani, pavida ed accurata. Morta. Nulla.
 
Di vedere l’eminentissimo PdC infangare continuamente
i poteri dello stato, stavolta pure dall’estero. Prima il potere giudiziario brutto e comunista, poi il Presidente della Repubblica che è il più comunista di tutti, infine con Fini reo di non essere idiota, prossimamente San Pietro. Ah, no, i presti non si toccano, dimenticavo. E poi, in ogni caso, sono i cattivi che ce l’hanno tutti con lui. Ecco. Oh.
 
Immaginare che, nonostante questo e molto molto di più, andando oggi al voto anticipato vincerebbe ancora LUI per mancanza di alternative e perché siamo un popolo così pecorone e becero da non meritare altro.
 
E mi fermo qui, perché sono stufa anche di parlarne. Perciò, caro Fabrizio mio, non te la prendere se come Robin Hood non sei stato apprezzato.
C’è di peggio, Fabrì.

Fidati...

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Tutto quello che c'è nella mia testa...vita, amore, arte, libri, immaginazione, musica. Il tutto naturalmente immerso nella confusione più totale. Poco? Qualche volta, pure troppo!!!

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