Mio zio non era un cuor di
leone.
Anzi, non era nemmeno coraggioso, neanche da giovane.
Solo che ci si trovò in mezzo, era l’unico maschio abile della famiglia e fu arruolato.
Mi dicono che fosse simpatico mio zio, allegro e dalla battuta pronta. Uno di quelli che sorrideva lisciandosi i baffetti e facendo ridere gli occhi cerulei e le ragazzotte arrossivano,
cincischiando tra di loro a gruppetti e tirandosi in faccia il lembo del fazzoletto.
Alla messa della domenica tutte le ragazze del paese se l’occhieggiavano, ma lui aveva occhi solo per mia zia che lo guardava a vista incattivita.
Alto, dinoccolato e con la zazzera castana, partì per la guerra con l’incoscienza della gioventù e la speranza di metter qualcosa da parte per costruire con mia zia la casetta dei loro sogni
lontana dalla povertà della mezzadria.
Ma fece i conti senza l’oste, partendo nel 1943 verso il Nord e finendo dritto nelle mani crucche dei soldati tedeschi che fino al giorno prima erano alleati
Così mio zio di guerra non fece un sol giorno e servì lo la Patria per poche settimane senza sparare un solo bossolo dal fucile.
Sparì e per quattro lunghi anni la sua famiglia lo pianse.
Mia zia portò il lutto, divenne vedova, continuò a piangerlo.
Finché una mattina di maggio, quando la guerra era finita da un pezzo, sentì bussare alla porta e si trovò davanti un vecchio cencioso appoggiato ad un bastone da eremita, magro come un palo
della luce e con una barba che toccava quasi il petto. “Sono io, Delfa” le disse “son tornato.” E mia zia, ovviamente, da vedova sconsolata qual’era fece l’unica cosa che le
venne in mente: svenne.
Secca. E solo l’aceto forte di mia nonna strofinato sotto il naso la fece rinvenire.
Mio zio non parlò più di quegli anni. Rimase muto, in un angolo.
Una sorta mistero ceruleo, chiuso nei suoi ricordi.
Divenne un uomo chiuso e provato, vegetale appoggiato al suo bastone.
Lui era vivo, ma la sua allegria ed il suo buon carattere erano rimasti in terra tedesca, confinati in chissà quale segreto.
Passarono gli anni e arrivo io, ragazzina di scuola elementare con le trecce.
Correva l’anno 1985 e la maestra commissionò a tutta la classe una ricerca di quelle serie, che porterà alla compilazione di un agognato cartellone: “Testimonianze e racconti della
Seconda Guerra Mondiale”. Ragion per cui decisi di stressare parenti/vicini/conoscenti ed affini fino alla nausea con domande a raffica. Mia nonna, al limite della sopportazione dopo aver
cacciato e riesumato dalla memoria ogni singolo dettaglio insignificante dell’epoca, mi suggerì melliflua: “Vai da tuo zio e fatti dire. Se ci riesci…”
Così, armata di penna, quaderno e occhioni da Bambi, bussai a casa degli zii.
Mi aprì la zia, intenta già a spignattare non so che cosa alle quattro del pomeriggio. Con la faccia burbera e accigliata di chi sa di essere il depositario unico della disciplina e della morale,
mi schiaffò su una seggiola senza tante moine, con un bicchiere di succo di frutta alla pesca non richiesto davanti.
Mio zio se ne stava seduto accanto alla stufa, attento a studiare il pomo del suo bastone come se fosse la cosa più interessante del pianeta.
“Zio mi racconti della guerra?” gli dissi. E lui fece scattare la testa verso di me, i suoi occhi puntati addosso. “E’ per scuola…” aggiunsi timidamente.
Per un po’ non disse nulla. Se ne rimase lì, accanto alla stufa a fissare un punto mentre io non staccavo gli occhi dal succo di frutta. Che poi a me il succo alla pesca m’ha sempre fatto schifo.
Fosse stato alla pera, almeno. O, che ne so, all’ananas. Ma proprio alla pera, accidenti.
“Non mi ricordo dov’eravamo accampati, non sono mai stato bravo con i nomi. In fondo sono solo un contadino, mica ho studiato.” La sua voce, che avevo sentito così poco in quegli anni e
solo in monosillabi, squarciò l’aria. Presi la penna senza dire nulla e attaccai a prendere appunti. Mia zia impegnata tra le pentole alle mie spalle sembrò non accorgersi di nulla.
Poi la voce riprese, lenta e strascicata: “Dormivamo accampati e ci furono addosso in un attimo. Anche perché i tedeschi erano alleati, mica nemici. E chi se l’aspettava? Spararono a tutti
quelli che provarono a ribellarsi, a tutti. Poi a noi ci caricarono sui furgoni urlandoci dietro con quelle vociacce e ci fecero scendere solo dopo tre giorni. Manco per fare i bisogni ci hanno
fatto scendere, te lo immagini ragazzina?”
Deglutii, prendendo appunti con più veemenza. “E dove eravate?”
“Non lo so dove, ma tutti ci urlavano in tedesco. Ci chiusero in baracche, trenta per ciascuna. Eravamo in un recinto, come le galline, guardati a vista dai soldati. Il primo giorno
piangevamo tutti, il secondo io le lacrime le avevo finite. Ce ne stavamo lì tutto il giorno a pascolare, per cibo solo una scodella di minestra e un pezzetto di pane. Per lavoro ci facevano
sbucciare tonnellate di patate. Patate, patate e ancora patate. A mucchi. Ma mica ce le potevamo mangiare sai? Le bucce sì, erano tutte nostre, ma le patate no. Se ti beccavano a rubare di
sparavano mettendoti contro il muro, l’ho visto fare. E se facevi la buccia troppo spessa ti beccavi una botta col fucile in faccia. E come ridevano, ‘sti crucchi schifosi!! Morivano dal
ridere!”
Un accesso di tosse lo interruppe violento. Io non osai fiatare.
Nella mia mente di bambina pregustavo già lo scoop scolastico.
Mia zia, che credevo non stesse ascoltando, gli allungò meccanica un bicchier d’acqua e svanì di nuovo prima che potessi
guardare l’espressione del suo viso rugoso.
“Noi stavamo male, eh, ma c’era chi stava peggio. Oltre la rete c’erano altri prigionieri così magri che sembravan scheletri. Non parlavano italiano, non sapevo chi erano, poi ho scoperto che
erano ebrei. Non gli davano manco la minestra, ma una cosa che sembrava la sciacquatura dei piatti. A volte gli ho visto mangiare la terra. Porelli, noi c’avevamo fame e freddo, ma loro erano
ridotti a bestie! Chissà da quanto che erano lì. Io avevo paura di diventare come loro e di nascosto da sotto la rete gli passavo le bucce delle patate quando le guardie non guardavano. Quanti ne
ho visti morire e restar lì a fare il concime! E che puzza!"
L’orrore e la nausea mi invasero a fiotti.
A nove anni forse non ero pronta, o magari non lo si è mai.
Ricacciai la nausea in gola e ripresi a scrivere meccanica mentre lui, ormai fiume in piena continuava: “Il tempo non
aveva importanza, non so quanto rimanemmo lì. So che un giorno le guardie sparirono e ci lasciarono senz’acqua per una settimana. Forse avremmo potuto anche provare a scappare ma eravamo troppo
deboli. Dall’altro lato della rete morivano sempre più ebrei, la puzza non si sopportava più. Poi arrivarono gli americani. Ci diedero acqua e cioccolata, e vestiti. Anche le scarpe. La
cioccolata mi fece venire subito la cacarella e anche agli altri. Patate e cioccolata mica io li mangio più. Poi a noi che stavamo bene dissero che potevamo tornare a casa, ché la guerra
era finita. Ma dov’era casa mia mica lo sapevo.”
“E tu... che cos’ha fatto allora?”
“Eh, che dovevo fare? Partimmo un gruppetto verso l’Italia. Ma a piedi però che non avevamo soldi. Qualcuno a volte ci dava un passaggio col carretto, a volte un pezzo di pane. Ma dovevamo
star attenti ché se ci scambiavano per fascisti c’ammazzavano come polii!! E così c’ho messo quasi due anni a tornare, e son arrivato con le scarpe tutte sfonde. Che fatica!” disse
appoggiandosi allo schienale con un sospiro.
“E i tuoi compagni? Che fine hanno fatto?”
“E chi lo sa? Qualcuno è tornato a casa, qualcuno è morto. Ma non ci siamo lasciati manco i nomi, ché certe cose è meglio scordarle.”
E così concludendo si rimise a fissare il pomo del bastone.
Fine delle trasmissioni.
Tutti a casa.
The end.
Non so perché decise di raccontare tutto a me quel giorno.
non avevo un gran rapporto con mio zio, né l’avrei avuto negli anni a venire.
Forse sentì che era arrivato il momento, forse voleva lasciare una traccia, non lo so.
Di certo una traccia la lasciò in me quel giorno, partita così tronfia come giornalista d’assalto e finita a sognare di
pelar patate la notte.
La mia ricerca fu la più apprezzata e completa, senza contare l’invidia dei miei compagni perché avevo un parente che era stato in un campo di concentramento mentre magari loro erano nipoti di
imboscati. Ma io non mi sentivo così fiera, anzi questa gloria aveva un sapore amaro quasi come le bucce di patata.
E non ho mai dimenticato…