1 giugno 2010
2
01
/06
/giugno
/2010
22:22
Da piccola ero una bimba particolare.Da piccola ero una bimba particolare. Avevo un’oca che mi seguiva ovunque e che riconosceva la mia voce, per dire.

Da piccola ero una bimba particolare. Avevo un’oca che mi seguiva ovunque e che riconosceva la mia voce, per
dire.
Ma a parte questo, ero particolare per tante piccole cose che avevano il potere di sconvolgere mia madre, che altro non sognava che una bimba buona e dolce, paffuta e con le trecce.
E le trecce io ce l’avevo ed ero anche discretamente paffuta.
Ma avevo anche la tendenza a vedere il mondo a modo mio.
Ma a parte questo, ero particolare per tante piccole cose che avevano il potere di sconvolgere mia madre, che altro non sognava che una bimba buona e dolce, paffuta e con le trecce.
E le trecce io ce l’avevo ed ero anche discretamente paffuta.
Ma avevo anche la tendenza a vedere il mondo a modo mio.
Ma i miei genitori non capivano la mia sensibilità diversa, chiara solo a mio nonno ed al suo sorriso.
Il mio mondo interiore fatto di favole mute, di fate e folletti gli era sconosciuto. Io avrei voluto più libri da leggere, loro mi iscrivevano a corsi di nuoto.
Il mio mondo interiore fatto di favole mute, di fate e folletti gli era sconosciuto. Io avrei voluto più libri da leggere, loro mi iscrivevano a corsi di nuoto.
Fu così che un giorno di vacanza, con i miei genitori e la sorellina appena nata, fui scaraventata nel
meraviglioso mondo del Delfinario di Riccione. Avrò avuto sette anni e mia mamma era molto convinta che sarebbe stata una esperienza formativa per me, e anche divertente.
E infatti all’inizio ero felicissima. Il Delfinario, nei miei ricordi, era un enorme costruzione ovale e sapeva vagamente di muffa, colorata e piena di vasche di pesciolini guizzanti. E di peluche ammiccanti, morbidosissimi ed in vendita a prezzi esorbitanti. In lire, chiaro.
E infatti all’inizio ero felicissima. Il Delfinario, nei miei ricordi, era un enorme costruzione ovale e sapeva vagamente di muffa, colorata e piena di vasche di pesciolini guizzanti. E di peluche ammiccanti, morbidosissimi ed in vendita a prezzi esorbitanti. In lire, chiaro.
Tutto bellissimo finché non suona la campana dell’inizio spettacolo.
Tutti di corsa a prender posto sui gradoni, entrano i delfini.
Dadaaaaan!
Mia sorella dal passeggino batte le mani, ebete.
Dadaaaaan!
Mia sorella dal passeggino batte le mani, ebete.
Salti, spruzzi , giochi. Splash!
Poi, lo spettacolo finale. Un volontario, prego, un volontario! Lì, tu! La bimba con le trecce,
vieni!
Non avevo nemmeno dovuto alzare la mano, quando si dice la fortuna!
Mi faccio forza e vado, pregando la Madonnina di non inciampare sui gradoni.
Tra il pubblico che applaude e fischia, mi mettono in mano un mazzo di fiori di plastica che lancio prontamente al delfino. Come un vero cavalier servente con un guizzo raggiunge il mazzetto che galleggia nella vasca e me lo riporta saltando sul bordo della vasca a dieci centimetri dai miei sandaletti bianchi.
Tra il pubblico che applaude e fischia, mi mettono in mano un mazzo di fiori di plastica che lancio prontamente al delfino. Come un vero cavalier servente con un guizzo raggiunge il mazzetto che galleggia nella vasca e me lo riporta saltando sul bordo della vasca a dieci centimetri dai miei sandaletti bianchi.
Bacio! Bacio! Bacio! Urla il pubblico.
E io mi chino e bacio il delfino sul muso. E’ salato, scivoloso e freddo, ma i suoi occhi sono così dolci che mi
viene da piangere. Lo vorrei abbracciare, ma ho paura di infradiciarmi la maglietta e di beccare un cazziatone da papà. Così lo accarezzo sulla testa, lui fa quel suo strano verso che sembra una
risata triste e se ne va.
Torno al mio posto, ancora emozionata. Tremo, anche se è agosto.
Mia madre mi guarda e mi chiede: “Ti sei divertita?”
Io annuisco e da bimba di sette anni chiedo: “Ma finito lo spettacolo dove vanno i
delfini?”
Mia mamma, ignara della potenza della domanda, risponde distratta ninnando mia sorella, mentre un bambino
selezionato a caso fa un giro su un minigommone trascinato dal mio delfino: “Mah, credo che qui ci siano delle vasche in cui li mettono a dor…”
Sgrano gli occhioni marroni:“Cioè non stanno in mare?”
Mia madre intuisce l’autogol: “N-N-N-O…”
Ora sono davvero terrorizzata, serro le labbra e guardo mia madre ansiosa:“Cioè… sono sempre chiusi quie
enon possono mai uscire né incontrare gli altri delfini? Vivono in una vasca che è una gabbia???? Non escono MAI???”
Mia mamma tenta la parata: “Ma amore, sono felici lo stesso! Sono protetti gli danno da
mangia…”
Interviene mio padre, a gamba tesa: “Su, Phoebe, dai! In fondo sono solo pesci!!!”
“No” gli urlo in faccia mentre due lacrimoni si affacciano sulle mie guance “sono mammiferi, l’ha
detto la maestra!!”
Dopodiché scoppio in un pianto così sonoro da coprire la musica, gli spruzzi e le grida. L’anfiteatro si gira
tutto verso di noi, ma io non smetto. I bambini seduti sui gradoni si immobilizzano, ma io ho aperto le dighe e non mi fermo. Dietro di me, per compagnia, parte mia sorella. Ora siamo bitonali.
Un pianto a due dimensioni.
I miei genitori mi trascinano via minacciando ritorsioni, ma io continuo a piangere.
Piango perché quel bellissimo animale che mi ha regalato un’emozione così forte sta chiuso in uno spazio
piccolissimo e non nuota libero come nei documentari di Piero Angela del pomeriggio.
Piango perché se fossi rinchiuso al posto suo sarei infelice.
Non ci vuole uno psicologo per capire che la mia claustrofobia, forse, è iniziata da lì.
O anche dal giorno che Tommaso mi chiuse nello sgabuzzino dell’asilo e la maestra si accorse della mia mancanza
dopo tre ore. Ma questa è una storia diversa ed un trauma ancora diverso, che vi racconterò la prossima volta.
Forse, eh...
Forse, eh...
Forse, eh… Avevo un’oca che mi seguiva ovunque e che riconosceva la mia voce, per dire.
Ma a parte questo, ero particolare per tante piccole cose che avevano il potere di sconvolgere mia madre, che altro non sognava che una bimba buona e dolce, paffuta e con le trecce. E le
trecce io ce l’avevo ed ero anche discretamente paffuta. Ma avevo anche la tendenza a vedere il mondo a modo mio.
Ma i miei genitori non capivano la mia sensibilità diversa, chiara solo a mio nonno ed al suo sorriso. Il mio mondo interiore fatto di favole mute, di fate e folletti gli era sconosciuto. Io
avrei voluto più libri da leggere, loro mi iscrivevano a corsi di nuoto.
Fu così che un giorno di vacanza, con i miei genitori e la sorellina appena nata, fui scaraventata nel meraviglioso mondo del Delfinario di Riccione. Avrò avuto sette anni e mia mamma era molto
convinta che sarebbe stata una esperienza formativa per me, e anche divertente. E infatti all’inizio ero felicissima. Il Delfinario, nei miei ricordi, era un enorme costruzione ovale e sapeva
vagamente di muffa, colorata e piena di vasche di pesciolini guizzanti. E di peluche ammiccanti, morbidosissimi ed in vendita a prezzi esorbitanti. In lire, chiaro.
Tutto bellissimo finché non suona la campana dell’inizio spettacolo.
Tutti di corsa a prender posto sui gradoni, entrano i delfini. Dadaaaaan! Mia sorella dal passeggino batte le mani, ebete.
Salti, spruzzi , giochi. Splash!
Poi, lo spettacolo finale. Un volontario, prego, un volontario! Lì, tu! La bimba con le trecce, vieni!
Non avevo nemmeno dovuto alzare la mano, quando si dice la fortuna!
Mi faccio forza e vado, pregando la Madonnina di non inciampare sui gradoni. Tra il pubblico che applaude e fischia, mi mettono in mano un mazzo di fiori di plastica che lancio prontamente al
delfino. Come un vero cavalier servente con un guizzo raggiunge il mazzetto che galleggia nella vasca e me lo riporta saltando sul bordo della vasca a dieci centimetri dai miei sandaletti
bianchi.
Bacio! Bacio! Bacio! Urla il pubblico.
E io mi chino e bacio il delfino sul muso. E’ salato, scivoloso e freddo, ma i suoi occhi sono così dolci che mi viene da piangere. Lo vorrei abbracciare, ma ho paura di infradiciarmi la
maglietta e di beccare un cazziatone da papà. Così lo accarezzo sulla testa, lui fa quel suo strano verso che sembra una risata triste e se ne va.
Torno al mio posto, ancora emozionata. Tremo, anche se è agosto.
Mia madre mi guarda e mi chiede: “Ti sei divertita?”
Io annuisco e da bimba di sette anni chiedo: “Ma finito lo spettacolo dove vanno i delfini?”
Mia mamma, ignara della potenza della domanda, risponde distratta ninnando mia sorella, mentre un bambino selezionato a caso fa un giro su un minigommone trascinato dal mio delfino: “Mah, credo
che qui ci siano delle vasche in cui li mettono a dor…”
“Cioè non stanno in mare?”
Mia madre intuisce l’autogol: “N-N-N-O…”
“Cioè… sono sempre chiusi quie enon possono mai uscire né incontrare gli altri delfini? Vivono in una vasca che è una gabbia???? Non escono MAI???”
Mia mamma tenta la parata: “Ma amore, sono felici lo stesso! Sono protetti gli danno da mangia…”
Interviene mio padre, a gamba tesa: “Su, Silvia, dai! In fondo sono solo pesci!!!”
“No” gli urlo in faccia mentre due lacrimoni si affacciano sulle mie guance “sono mammiferi, l’ha detto la maestra!!”
Dopodiché scoppio in un pianto così sonoro da coprire la musica, gli spruzzi e le grida. L’anfiteatro si gira tutto verso di noi, ma io non smetto. I bambini seduti sui gradoni si immobilizzano,
ma io ho aperto le dighe e non mi fermo. Dietro di me, per compagnia, parte mia sorella. Ora siamo bitonali. Un pianto a due dimensioni.
I miei genitori mi trascinano via minacciando ritorsioni, ma io continuo a piangere.
Piango perché quel bellissimo animale che mi ha regalato un’emozione così forte sta chiuso in uno spazio piccolissimo e non nuota libero come nei documentari di Piero Angela del pomeriggio.
Piango perché se fossi rinchiuso al posto suo sarei infelice.
Non ci vuole uno psicologo per capire che la mia claustrofobia, forse, è iniziata da lì.
O anche dal giorno che Tommaso mi chiuse nello sgabuzzino dell’asilo e la maestra si accorse della mia mancanza dopo tre ore. Ma questa è una storia diversa ed un trauma ancora diverso, che vi
racconterò la prossima volta.
Forse, eh…