Ed eccoci qui, ad una settimana dall'inizio della trafila dei tracciati.
Che poi, il monitoraggio in sé non è questa gran cosa, anche perché la pupa già si sta dimostrando una primadonna e appena mi siedo in
poltrona, forse conscia di essere finalmente protagonista, si esibisce in capriole ed evluzioni che manco i trapezisti del circo. Vanitosa nel DNA, la gnoccolona. Così mentre le altre stanno
almeno un'ora ad aspettare, io in venti minuti ho evaso la pratica. Tutto ok quindi, ma prendere e partire da casa, affrontare la nebbia mattutina e infilarsi nel dedalo dei corridoi
dell'ospedale è divertente come fare la ceretta.
Da lunedì, poi, tutti i giorni, a meno che la lady che vive sopra il mio sterno decida che il mondo è finalmente pronto al grande evento.
E non è che posso andarci da sola, perché non mi fanno guidare manco per sbaglio ("E se poi succede qualcosa???") anche se mi sento esattamente come un mese fa. Perciò devo precettare i miei
genitori per farmi dare uno strappo, o farmi portare dall'Amoremio. Io odio non essere indipendente, tantissimo. Mi mette un'ansia che non vi dico. E non perché le persone che ho accanto non
siano disponibili, assolutamente non è così: è che sono abituata a fare le cose da sola.
L'ho già detto che ho un brutto carattere?
Stamattina poi, fatto il tracciato ho dovuto aspettare almeno quaranta minuti che qualcuno lo controllasse e si sa, io ad aspettare mi annoio. Vi immaginate l'irritazione? E dire che la
prolattina nel sangue mi fa l'effetto di una canna ultimamente. Metaforicamente parlando, ovvio.
Non mi ero portata nemmeno il lettore ebook e il telefono prendeva male. così mi sono dedicata ad una delle mie attività ludiche preferite: osservare gli altri e impicciarmi degli affaracci
altrui. E costruirci sopra delle storie, ovviamente, altrimenti che gusto c'è?
La mia attenzione è stata attratta da una bella bimba di poco più di un anno che trotterellando tra i corridoi cercava disperatamente
di attirare l'attenzione di un bimbo più o meno della stessa età, pervicacemente attaccato alle gambe della madre. L'arrivo della madre della bimba ed il suo abbigliamento mi fanno scoprire che è
di origine mediorientale, mentre il bimbo e la madre conversano in russo.
Finalmente il bimbo vince la sua ritrosia ed iniziano a giocare, mentre le madri iniziano una conversazione in un italiano che definire stentato è poco.
Ma la barriera linguistica non sembrava riguardare affatto i due bimbi, che hanno iniziato ad esplorarsi reciprocamente come solo a quell'età sanno fare.
Ignari di differenze culturali, sociali o altre amenità simili.
Solo uguali.
Ecco, io lì mi sono sentita felice, quasi commossa. Aspettare non mi importava più. Mi sono detta che forse, ma dico forse, una piccola speranza c'è per questo mondo malato.
Piccola, ma c'è.
E sono i grandi di domani...